Orto di Montagna

Collasso … o Un Altro Futuro? Conversazione con Pablo Servigne

COS’E’: Questo articolo contiene una traduzione e adattamento di un post originale che si può trovare qui
CHI (AUTORE): L’autrice dell’intervista ha pubblicato su Contretemps diversi articoli, la pagina dei suoi interventi è qui .
Di Pablo Servigne si parla nell’intervista stessa, si può approfondire con il suo sito web (in francese) https://pabloservigne.com/ , ed esiste da poco un articolo su Wikipedia (in francese),  qui .
QUANDO: Pubblicato a marzo 2018 sul sito originale

di Sarah Kilani (trad. a cura di Ancilla R.)

Tutto crollerà (ovvero collasserà) molto presto… ma niente panico: questo è, in sostanza, il messaggio di Pablo Servigne e Raphael Stevens contenuto nel loro “Comment tout peut s’effondrer”, ovvero un Piccolo manuale di collassologia ad uso delle generazioni attuali, pubblicato quasi tre anni fa nella collezione  «Anthropocène» delle Editions du Seuil. Ricercatore indipendente (o in-terra-dipendente), Pablo Servigne ha, da allora, continuato il suo lavoro. Sarah Kilani riflette con lui su un libro che tutto sommato fa un po’ paura, e allarga la discussione verso altre vie.



Contretemps : Nonostante la critica alla crescita che lei fa in Comment tout peut s’effondrer[1] (Come tutto può crollare, NdT) , lei non cita che raramente il sistema economico-politico che la sottende: il capitalismo. Perché?

Pablo Servigne: Volevamo scrivere un libro che si concentrasse il più possibile sui fatti. Secondo me si possono distinguere tre aspetti: le cause, la situazione e le proposte. Riguardo alle cause, ognuno ha la sua teoria e qui si comincia subito a litigare. Stessa cosa per le soluzioni da prendere in considerazione. Volevamo metterci d’accordo almeno sulla constatazione dei fatti, e questo è il nucleo centrale del libro, che abbiamo tentato di trattare nella maniera più neutrale possibile, anche se non si è mai neutrali. Questa osservazione sul capitalismo mi è stata rivolta spesso e capisco che per chi si batte per un mondo migliore risulti irritante. Ma scrivendo questo libro avevamo già l’idea di diversi volumi o di diverse opere. Questa prima opera voleva essere un denominatore comune tra campi diversi che non si … frequentano. L’obiettivo era di passare da una disciplina all’altra, ma anche da un ambiente all’altro. Io conosco soprattutto gli ambienti delle associazioni militanti, dell’educazione popolare e anche quello accademico e istintivamente ho sempre diffidato dell’ambiente politico e di quello delle imprese, però volevo incontrare altre persone. Mi ha molto sorpreso essere stato citato da preti cattolici, da militari, essere stato invitato all’Eliseo e anche dal MEDEF (l’equivalente della Confindustria italiana, NdT) belga e svizzero, dall’azienda agricola del Goutailloux di Tarnac ecc… Personalmente trovo piacevole incontrare tutte queste persone così diverse, per captare l’aria dei tempi.

Secondo lei il capitalismo favorisce veramente i comportamenti individualisti?

Individualista, competitivo, egoista… Si potrebbe passare parecchio tempo a definire questi termini ma fanno tutti parte di una nebulosa che, per me, si oppone a quella del mutualismo, della solidarietà e dell’altruismo. Due grandi forze sono all’opera: quella che separa gli esseri viventi e quella che li associa. A me interessa l’equilibrio tra le due forze.

Una delle dinamiche del capitalismo è la competizione, ma questo non impedisce di associarsi per essere più competitivi: è la base dell’impresa. Siamo in un’atmosfera che spinge a mettere individui e gruppi in concorrenza fra loro. Per giustificare la sua esistenza sorge il bisogno di mostrare che il mondo non è altro che competizione ed è per questo che i teorici del capitalismo sono andati a cercare Darwin al tempo della rivoluzione industriale. Sono andati a cercare nelle sue idee – deformandole – una giustificazione naturale a questa ultra-competitività. Non so se sia venuto prima l’uovo o la gallina, ma si è creata una società nella quale i legami sociali sono sempre più tenui, una società atomizzata dove ognuno è sempre più individualista, e solo. Per riprendere l’espressione di Stig Dagerman, ci si ritrova con un immenso bisogno di consolazione. Consiglio a questo proposito il magnifico testo dell’anarco-sindacalista svedese Notre besoin de consolation est impossible à rassasier”. (Il nostro bisogno di consolazione, NdT). 

Quando si è creato il vuoto, si è disposti a comprare anche fumo pur di riempirlo. Ciò apparentemente funziona, ma crea una retroazione che produce ulteriore atomizzazione e aumenta il nostro bisogno di cure. Ne consegue l’urgenza di cambiare il senso di questo ciclo di retroazione. Nella mitologia l’idea di cambiamento contiene quella di ricreare un legame che produca esso stesso altre storie che possano essere  narrate. Dobbiamo ricreare senso e legami. E’ quello che cerco di fare con i miei scritti e le mie conferenze.

Questo capitalismo si àncora in una visione dell’umanità nella quale vige il principio de “homo homini lupus”. Allora la transizione non deve avvenire prima di tutto nelle nostre rappresentazioni e nei nostri miti?

Assolutamente! Ho scoperto da poco questo problema, mi appassiona e ne abbiamo fatto il nostro cavallo di battaglia. Ma il mio linguaggio, il mio modo di vedere il mondo, di analizzarlo e rappresentarlo è la scienza. Raphael Stevens, Gauthier Chapelle ed io siamo partiti da un’intuizione e abbiamo utilizzato tutto il bagaglio scientifico immagazzinato durante i nostri studi. Inoltre, io vi ho aggiunto la dimensione militante – ho fatto parte per dieci anni del movimento anarchico – e l’educazione popolare. Io partivo da lì, ma non sapevo assolutamente niente di mitologia, cinema, narrazione e ho iniziato ad appassionarmi a questo argomento leggendo e incontrando gente. Questa intuizione, e cioè che occorreva raccontare altre storie sul nostro futuro, l’abbiamo messa nel libro e abbiamo ricevuto buone risposte, soprattutto dagli artisti. Poi, di cosa in cosa, di incontro in incontro, mi sono documentato su questo argomento e mi sono reso conto che effettivamente la nostra intuizione non era affatto male e che il terreno della lotta si trova nel campo dell’immaginario.

Da Gramsci a Sarkozy, la piccola mitologia dei tempi moderni e la sua egemonia culturale… è una bella battaglia! Ma penso che occorra andare oltre la questione dell’egemonia politica e del potere. Forse bisogna scavare più lontano, nei nostri miti e nel nostro inconscio. E’ quello che abbiamo cercato di fare nel nostro libro L’entraide, l’autre loi de la jungle[2] (Il mutuo aiuto – la “mutualità – ovvero l’altra legge della giungla) che era già in preparazione prima di quello sul collasso. Lo stavo preparando da 10 o 12 anni quando ho scritto quello sul collasso, un po’ frettolosamente all’inizio, perché mi era stato richiesto e ho accettato perchè non riuscivo a capire che le persone non sapessero quello che stava succedendo. Ma quando sono ritornato a  “L’entraide” (la mutualità, il reciproco aiuto, NdT)  ho provato una specie di sollievo, perché il mio vero obiettivo era questo, porre domande su qualcosa di più profondo. In una certa misura la mia attività principale è  prendere la gente in contropiede nelle loro rappresentazioni, creare delle brecce. Mi piace far scattare qualcosa, come dei “clic”, perché io stesso ne ho sperimentati di eccitanti, che mi hanno dato i brividi. E voglio condividerli.

Lei dice: “per certi sociologi, lo scambio di merci non è nemmeno una relazione di reciprocità perché non contiene le altre dimensioni dell’umano: i sentimenti, la fiducia, la generosità, i riti e tanto meno  la dimensione sacra”. L’antropologo David Graeber conferma questa ipotesi nel suo libro sul debito e afferma che è la monetizzazione di tutti gli scambi – specifica del capitalismo – che distrugge il legame sociale perché non permette la creazione di un debito sociale, questo cemento delle società.

Sono completamente d’accordo con lui. C’è un gradiente tra le relazioni profonde di dono, contro-dono e reciprocità e il crudo scambio mercantile. Nella nozione di dono e contro-dono sviluppata da Mauss e ripresa qui da Graeber, ci sono varie dimensioni; sociale, spirituale, sacra, fraterna. Lo scambio mercantile ne ha solo una, ed è privo delle altre: si desacralizza. E’ il minimo assoluto del legame sociale. Però, a mio parere, questo resta comunque un legame sociale. Ed è su questa base minimale che si è fondato il liberalismo. Qui io riprendo parzialmente la tesi di Michéa secondo cui, traumatizzati dalle guerre di religione, i filosofi del liberalismo hanno creato il sistema politico sostenuto dal minimo comun denominatore: lo scambio mercantile. Evidentemente quando una società non si basa che su ciò, è tossica … e questo è il punto del Movimento anti-utilitaristico nelle scienze sociali (MAUSS) animato dal sociologo Alain Caillé. Ma io prendo in contropiede anche David Graeber dicendo che uno scambio mercantile resta uno scambio, che contiene della reciprocità anche se minimale, fredda e a volte incosciente.

La relazione di reciprocità non necessita sempre di empatia, altruismo, spiritualità, amicizia o amore; quando in molte specie animali (pesci, batteri, scimmie, gamberetti, alberi…) c’è reciprocità, non sappiamo se vi sono sottese tutte le cose che ho citato, ma fanno parte di questa forza di cui parlo all’inizio che lega e associa gli esseri umani. C’è della reciprocità anche tra i pesci, e c’è anche la reputazione! E’ pazzesco! Allora, sì, si può concepire questa reciprocità come minimale, proprio come lo scambio commerciale tra gli uomini. Ma lo studio globale della mutualità comprende tutto questo, dalla reciprocità “fredda” tra i batteri fino alla reciprocità molto ricca del dono secondo Marcel Maus o alla fraternità sacra cara a Regis Débray. Demonetizzare gli scambi potrebbe essere una via politica da approfondire ma io sospetto sempre delle soluzioni uniche, dei silver bullets come dicono gli inglesi ma questo è parte del cammino da esplorare. Ci sono molte esperienze fatte su questo punto, come è noto in psicologia. Per esempio, tra i bambini che hanno una motivazione intrinseca a fare qualcosa, se un adulto cerca di motivarli in anticipo con una motivazione estrinseca, per esempio con i soldi, questo elimina la loro motivazione intrinseca. Lo stesso dicasi per lo scambio e l’aiuto reciproco; importanti studi neuroscientifici dimostrano che quando qualcuno coopera con noi, questo aziona dei circuiti neuronali del piacere, della ricompensa e del benessere. Inoltre una situazione di assenza di cooperazione scatena disgusto. E le esperienze mostrano che quando è un computer a cooperare con noi, i circuiti del piacere non si azionano. Quando si rompono i rapporti di reciprocità, si frantuma veramente qualcosa che sta nel campo della gioia e del piacere.

Oggi le istituzioni sono vittime di un tale paradigma utilitaristico, tanto che cominciano a monetizzare l’aiuto reciproco pensando – a torto – che questo motiverà la gente. Questo non solo le demotiva, ma contribuisce a veicolare una visione del mondo secondo cui la gente è interessata solo al denaro. E questo è totalmente falso! Ciò che spinge qualcuno a lavorare non è affatto il denaro, il sesso e nemmeno la gloria. E’ il grado di autonomia che si acquisisce, il livello di competenza e di esperienza e il fatto di partecipare a un’opera che va oltre noi stessi, che è più grande di noi; queste sono le tre cose che inducono la gente ad alzarsi la mattina con grinta. Non è il denaro. Dopo qualche anno il paradigma utilitaristico che si è istituzionalizzato si capovolge. Monetizzare tutto è davvero uccidere la società.


Nel vostro libro sulla collassologia lei critica le disuguaglianze; secondo voi aggravano la situazione ecologica. Come riconciliare la questione sociale e l’ecologia?

Secondo me non sono in contrasto, è evidente che una non funziona senza l’altra. Se le si pensa separatamente, si vede solo la metà del quadro, e quindi si propongono soluzioni che non sono all’altezza dei problemi, quindi controproducenti. Bisogna semplicemente vedere che la questione sociale ha tempi corti o medi e l’ecologia tempi medi e lunghi. Ma viaggiano di concerto. Si tratta di vivere meglio, insieme sullo stesso pianeta, il più a lungo possibile. Punto. Per progredire in questa direzione, e so che lei ama il suo pensiero, cito le parole di Spinoza: “Non prendersi in giro, non lamentarsi, non detestare ma capire”. Questo a me va benissimo, ed è il tono che si è voluto dare alla collassologia. Capire. Poi, siccome si tratta di agire, penso che non tocchi alla collassologia rispondere ma piuttosto a quella che si potrebbe chiamare “collasso-sofia” e anche “collasso-prassi”.  Che ne penserebbe Spinoza se fosse ancora vivo? Penso che gli invierei una email per proporgli di scrivere un libro a due mani” (ride).

Voi giustamente rifiutate il concetto di natura umana che associate al determinismo. Ora, Spinoza, uno dei grandi precursori del determinismo, non riconosceva affatto l’esistenza di una natura umana. Sosteneva che non ci sono che modi di esistere, insiemi di potenzialità, la cui espressione dipende dall’ambiente (nel senso più vasto) nel quale ognuno evolve. Forse voi confondente l’esistenzialismo con il determinismo.

Sono d’accordo con la visione secondo cui gli esseri umani sono il frutto del loro ambiente, ma non unicamente. Penso che c’è anche una parte di eredità e che siamo un mille foglie nel quale non si può distinguere l’innato dall’acquisito. Si eredita il patrimonio genetico dei nostri antenati ma soprattutto il modo in cui è stato formato dal loro ambiente. Si eredita l’ambiente dei nostri antenati. Non si può spiegare tutto con l’ambiente, e nemmeno con i geni, indipendentemente da quello che li circonda.. Questo è quello che ha cercato di fare la biologia in una certa fase e che le scienze sociali temono molto. C’è una specie di fantasma che circonda la biologia. Io, quando arrivai come biologo in un contesto di storici, di psicanalisti, di sociologi e di filosofi, fui guardato con sospetto. E quando parlavo di biologia o di sociobiologia, ero malvisto, avvertivo molta aggressività. Ero visto come un essenzialista o non so che altro ma non ho mai capito questa visione manichea delle cose. Il mito del buon selvaggio di Rousseau è un archetipo, evidentemente non la realtà, così come l’homo hominis lupus di Hobbes o anche il modello dell’homo economicus. Sono dei modi di rendere caricaturale uno strumento filosofico per  pensare il mondo anche se sono pur sempre modelli incompleti. A me interessa pensare la complessità e tutte le sfumature di grigio, sia per il problema del collasso che per quello del mutuo aiuto.

Comunque, sotto numerosi aspetti, il suo libro sulla mutualità si pone in una prospettiva spinoziana.  In effetti, parla di creare un futuro desiderabile. Come propone lei di influenzare gioiosamente le persone così che la seguano nel cammino della transizione?

E’ un grande problema che apre una successione di dedali. In primis c’è una sorta di profezia che si autorealizza per il fatto di credere che il futuro si svilupperà in un certo modo, e ci incita  quindi ad agire in quella direzione. E’ particolarmente vero per la legge del più forte – la supposta legge della giungla – perché credendovi si crea tensione sociale, cultura dell’egoismo e della competizione. Questo mito è profondamente ancorato in noi, sia in modo cosciente che incosciente, ed è molto tossico per la nostra gestione di futuri periodi di crisi e per resistere nella tempesta. Ho notato che rompendo questa convinzione, creando lacune, crepe, clic, creiamo comportamenti gioiosi tra le persone che scoprono che la natura ha sviluppato sofisticati sistemi di auto-aiuto. L’obiettivo non è imitare la natura, ma rendersi conto che ci hanno detto sciocchezze da quando eravamo molto piccoli! Anche solo fare un passo indietro è già bello. Ciò dà nuovo coraggio e apre nuovi orizzonti. Non so in che modo avverrà la transizione ma penso che questo renda il mondo un po’ meno tossico.

Per rispondere alla sua domanda da un’altra angolazione, direi che nei contesti della transizione, c’è a volte questa ingiunzione a rimanere positivo, questa parte un po’ da atmosfera “tutto rose e fiori”  (“Bisounours” nell’originale francese, NdT) , un po’ anti-catastrofista. Ho già sentito delle persone a me vicine dire “Non voglio più sentire la parola ‘catastrofe’!”. Ma di fatto  parlare di catastrofi è il mio lavoro! Come faccio? Penso che sia una sorta di rifiuto che può essere trovato anche tra i transizionisti, gli ecologisti. Da parte mia, cerco sempre di avere un piede su ognuno dei due lati, il lato oscuro e quello luminoso e di pormi come interfaccia. Ad ogni modo non possiamo avere entrambi i piedi nel disastro perché non è praticabile. Non c’è più gioia, entusiasmo, aspettative – speranza, direbbero i cristiani – o come dicono le persone vicine a Pierre Rabbi, più slancio o “conatus”, come forse direbbe Spinoza! (Ride)

In particolare, noto che le mie lezioni fanno bene, il che mi rende felice e quindi fa bene anche a me. E ho notato che fa bene alle persone sia quando parlo di collasso sia quando parlo di aiuto reciproco, non so perché.

Dovremmo rinunciare al tentativo di Descartes di “diventare padrone e possessore della natura”?

Sì,evidentemente … e prima è, meglio è. In effetti, ci rinunciamo già. Ma se prenderemo davvero l’iniziativa, il collasso diventerà un po’ più “dolce”. Penso che questa sia una delle credenze più tossiche perché ci impedisce di cambiare direzione nonostante i fatti. Non avremmo mai dovuto crederci, è assurdo.

Lei è esplicitamente a favore delle teorie sulla crescita della popolazione di Malthus, che tuttavia hanno difeso né più né meno che il darwinismo sociale. Che cosa pensa delle sue proposte di negare ogni aiuto ai bisognosi (che hanno il tasso più alto di fertilità) o anche di aumentare la tassa sulla taglia e sul peso dei bambini e di sostenere economicamente le coppie senza figli?

In effetti potrebbe essere pericoloso rifarsi a Malthus, ma sono certo che le persone che prenderanno in considerazione l’argomento faranno la cosa giusta. Non ho letto tutto Malthus, per lo più ho letto cose scritte su di lui. Certo, è un pendio scivoloso ma penso che questi siano problemi da discutere e trattare nella società. Non ci deve essere nessun tabù.

Dato che il 10% degli esseri umani produce da solo il 50% dei gas serra, perché non abbandonare pericolose teorie malthusiane in favore della semplice  difesa di uno stile di vita che consumi meno risorse e meno energia?

Perché penso che non basterà. Ovviamente dobbiamo anche difendere uno stile di vita che consumi di meno, ma non credo che dobbiamo scegliere tra i due. Devi fare tutto allo stesso tempo. Abbiamo uno sforzo da fare sul problema demografico e nessuno sa come affrontarlo. Non c’è un vero esempio pratico di politica denatalista accettabile e interessante. Tra gli esempi di tali politiche c’è quello portato da Jared Diamond, l’isola di Tikopia, nel suo libro Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere[3].  Si tratta degli abitanti di un’isola che sono sopravvissuti perché sono stati in grado di limitare la loro demografia con politiche di denatalità molto severe. Niente di tutto ciò è molto facile. Ma penso che non dovremmo metterlo sotto il tappeto e dobbiamo rimboccarci le maniche per pensare a cosa possiamo fare. Perché altrimenti ricadrà su di noi e non controlleremo nulla. Penso che anche se arriveremo a una società sobria nei consumi e il più egalitaria possibile, nove miliardi di esseri umani comporteranno ancora dei problemi. Quindi possiamo dire che una forma di regolamentazione è già iniziata in alcune aree a causa di disastri climatici e mancanza di risorse, ma qui nei paesi ricchi, siamo ancora protetti da una coperta molto confortevole.

Ma per esempio il tasso di natalità in Francia rimane molto basso rispetto alla maggior parte dei paesi africani. Tuttavia, i francesi non possono chiedere onestamente agli africani che inquinano molto meno di noi di smettere di fare figli.

No, certo che non possiamo. Soprattutto perché non abbiamo ancora capito bene il perché della transizione demografica (passaggio da una popolazione che ha tassi di natalità e mortalità elevati a una popolazione con tassi di natalità e mortalità bassi, NdT) e perché i ricchi facciano meno figli. La maggior parte delle persone concorda sul fatto che dobbiamo iniziare riducendo le disuguaglianze. Ma OK, facciamolo allora! Tuttavia, questo non ci faccia ignorare la questione del nostro tasso di natalità. Ed è importante perché solleva la questione delle donne, l’educazione sessuale e tutti questi temi affascinanti che devono essere affrontati sistematicamente.

Naturalmente questo non si può realizzare nella forma di un governo che dica “ora chiunque può avere solo un figlio”, sarebbe orribile e inefficace. (In Cina l’hanno fatto dal 1979 al 2013 e di fatto vige ancora perchè per un secondo figlio si deve pagare un tributo che i poveri non possono permettersi, NdR/T) Tuttavia, se non cogliamo questi problemi, il crollo e le crisi ecologiche risponderanno per noi in modo drammatico. Ci sono scienziati che hanno fatto un calcolo. Hanno misurato l’energia pro capite di cui un paese ricco avrebbe bisogno per completare la sua transizione demografica. Hanno poi calcolato la quantità di energia necessaria a tutti i paesi del mondo per effettuare questa transizione. E infatti non c’è abbastanza energia disponibile sul pianeta per farlo. Non ci riusciremo. E la demografia del crollo, se lasciamo fare, sarà un’esplosione di mortalità… ma anche di un tasso di natalità incontrollato! E ci ritroveremo cicli fuori controllo che sono tradizionali nei predatori/prede e nel mondo vivente in generale. Diciamolo chiaramente, è spaventoso.

Per quanto riguarda la transizione e l’energia, lei non è d’accordo con Jean-Marc Jancovici su almeno una cosa: l’energia nucleare. Lei afferma che l’energia nucleare dipende molto dalle energie fossili. Può spiegarlo? Possiamo rendere l’energia nucleare indipendente dai combustibili fossili a breve termine?

Nonostante tutte le mie ricerche, non ho mai trovato un lavoro sul legame tra petrolio ed energia nucleare. Ma se facciamo affidamento sulla logica, possiamo disegnare alcuni elementi. Per fare il nucleare, cosa serve? Calcestruzzo che richiede petrolio per la produzione e il trasporto.

I tecnici: come li spostiamo e come vanno a lavorare? Grazie al petrolio. Occorrono anche centrali elettriche a carbone. E poi dobbiamo prendere l’uranio, quindi abbiamo bisogno di un esercito per andare in Niger o altrove. Ma non sappiamo come fare un esercito senza petrolio. Dobbiamo garantire il trasporto e l’interramento delle scorie nucleari, il che richiede petrolio …. e lo stesso dicasi per i fusti che le contengono. Come fare i fusti (contenitori dei detriti e scorie) senza petrolio? Per estrarre i minerali, per produrli usiamo energia fossile! L’intero sistema industriale, comprese le energie nucleari e rinnovabili, sono fortemente dipendenti dal petrolio. I pannelli fotovoltaici a base di silicio e tutto il resto sono in un modo o nell’altro petrolio e carbone. Quindi l’energia nucleare può sopravvivere senza petrolio? Oggi è chiaro che no. E il problema più importante è che se domani avremo un’interruzione nella fornitura di petrolio, non saremo in grado di spegnere e raffreddare le centrali nucleari. Stia attenta, non parlo nemmeno di smantellarle ma di spegnerle. Perché non dico il budget, l’energia e gli umani che sono necessari e che chiaramente non avremo per smantellare i 430 reattori costruiti nel mondo. Ma già solo per raffreddare una centrale ci vogliono 6 mesi. E così ci vuole l’elettricità per tutto questo tempo con tecnici che arrivano in macchina, sono pagati e hanno la fiducia della società – ci vuole stabilità politica per estinguere una centrale elettrica – e ciò solo per fermare il sistema nucleare! E nessuno accetta di rispondere a questa domanda: perché nessuno sa come rispondere. Inoltre è intollerabile avere rifiuti la cui durata supera la durata degli umani o quella della politica. Sappiamo che esiste un rischio terroristico e nessuno può garantire per oltre un milione di anni l’assenza di rischio terroristico o di stabilità politica o addirittura di civiltà. Abbiamo solo visioni a breve e medio termine nella nostra organizzazione politica e ciò è incompatibile con il lungo termine. Il clima e il nucleare sono le due cose a lungo termine che abbiamo toccato, deregolato, che non controlliamo e che sono potenzialmente fattori di scomparsa dell’umanità, persino della maggior parte delle specie sulla Terra. È totalmente al di là di noi ed è per questo che penso che non solo bisogna fermare tutto, ma anche farne qualcosa di “sacro”. Alcuni parlano di creare templi come Isaac Asimov nel ciclo della Fondazione [4] e di avere una sorta di preti che si prenderanno cura di queste centrali. Forse un giorno dovremo farlo. Ma quello che è certo è che non possiamo lasciare questa domanda solo ai tecnici.

Oggi la permacultura, che lei difende come una “via di transizione”, soffre di un’immagine molto depoliticizzata, veicolata in particolare da persone come Pierre Rabbhi che elude completamente la dimensione politica della permacultura e sostiene la trasformazione individuale e l’abbandono delle strategie collettive e militanti. In particolare, descrive le manifestazioni come “poche ore per rendere la vita impossibile a chi mi circonda”. Pensa che i “permacultori” dovrebbero organizzarsi in una forza politica?

C’è una visione fredda che consiste nel dire che è positivo che la permacultura si diffonda in tutti i circoli, dalla sinistra ai fascisti, passando per i sacerdoti e persino fin nelle stanze del Ministero degli Interni. Fa eco alla visione strategica di Rob Hopkins, del movimento della transizione (Transition, NdT). È nato in Inghilterra, per noi francofoni è un UFO politico, perché è completamente spoliticizzato. In realtà, è molto politico e lo sa, ma rifiuta qualsiasi etichetta perché non vuole che questo sembri politica. Secondo lui è una strategia perché rifiuta la divisione e la lotta. Siamo nella stessa barca, e più siamo, meglio è. In realtà crea imbarazzo in molte persone. Ho fatto educazione popolare a Liegi, per quattro anni abbiamo sviluppato il tema della Transizione/Transition. E la critica che ricevevamo costantemente era proprio su questo aspetto apolitico, e cioè che non era un movimento che si faceva carico del sociale e delle disuguaglianze. L’ho fatto altrove, ma nel movimento  di Transition la strategia era quella di non farlo. Ho trovato questo abbastanza brutto all’inizio poi ci ho ripensato. Penso che dobbiamo affermare un’etica – così come fa la permacultura, che non è neutrale – e procedere poi andando all’offensiva. Penso che ci vuole una vera controffensiva, senza promettere che saremo totalmente non-violenti. Ci proviamo, ma non promettiamo. Penso che ci sia davvero un fronte di lotta, ad esempio a Notre-Dame-des-Landes o in altri ZAD (Zona da Difendere, da un progetto qualsiasi, NdT) – che devono essere sostenuti. Ma tutto ciò non esclude il lato troppo gentile che può essere trovato tra gli agro-ecologisti, o nel movimento dei Colibrì. Perché hanno anche un ruolo interessante, quello dei “meditatori”, e con gli amici parliamo di “conciliare il meditante con il militante” cioè l’attivista. Perché entrambi esistono in ognuno di noi e penso che entrambi si alimentano a vicenda. Se hai solo il lato militante, rischi di spezzarti e di creare cinismo. È molto difficile militare, si ha bisogno di forza, ci si deve ancorare per avere l’energia d’andare a difendere quelle “aree”, quelle ZAD. E d’altra parte, non si può accontentarsi della sola meditazione. Perché quando la vita viene distrutta o una foresta viene rasa al suolo, ci sono lotte da iniziare. Ma a volte nascono fraintendimenti. Ad esempio, mi piace quello che dice Pierre Rabhi, ma non è esaustivo. Il mio atteggiamento è piuttosto quello di dire che dobbiamo completare piuttosto che rifiutare. Ma ascolto attentamene anche le critiche.

Per tornare alla permacultura, se seguiamo i tre principi etici, possiamo solo andare nelle ZAD e pazienza se qualcuno non può praticarla. E i dodici principi di design della permacultura, automaticamente ti politicizzano! C’è un grande movimento di permacultura umana, che lavora per organizzare i gruppi, anche lì con gravi insidie  nella sociocrazia (il “governo di associati”, NdT), nell’olocrazia (o Olarchia, una sorta di intelligenza collettiva, NdT), tutte queste tecniche di “governance” in cui troviamo il lato tecnocratico della gestione che interferisce con la permacultura. Ma ci sono anche delle belle scoperte, non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca. Si sta politicizzando, e penso che manchi poco perché diventi un movimento consapevole di se stesso e che si affermi. In fondo è sempre il problema della parola “politico”, tutto dipende da come la si intende. Se la storia è fare un partito politico, non sono d’accordo. D’altro canto, mi dispiace che sia stato fatto un partito ambientalista 40 anni fa, era una pessima strategia.

Perché capire che esiste una limite alle risorse non definisce affatto una politica. Si possono trarre conclusioni diametralmente opposte. Ora vediamo emergere il concetto di “dittatura verde”. Per i suoi promotori, è meglio avere una dittatura che prenda le decisioni giuste piuttosto che un suicidio collettivo.

Ho sentito spesso parlare di questo, sì. Anche se capisco il riflesso, lo trovo terribile. Ma la domanda è come evitare questa trappola – che alcune persone ritengono inevitabile. Sostengono che se non facciamo nulla è perché siamo in una democrazia e dobbiamo fermarla.

Per me c’è una sola opzione. Dobbiamo muoverci verso più democrazia, un po’ come propone Hervé Kempf, per lui siamo più in un’oligarchia che in una democrazia. E dovremmo invece seguire il percorso di Ivan Illich, Schumacher e Kohr [5] che propongono principalmente di ridurre le dimensioni. Questa è la chiave. Penso sinceramente, con Ernst Schumacher e Leopold Kohr e tutti i pensatori della convivialità e dei limiti, che tutti i sistemi sono buoni ma che da una certa dimensione in poi diventano immancabilmente cattivi. Per me, se appare una dittatura, c’è un problema di scala. Dopodiché, non diciamo che tipo di organizzazione ci vorrebbe per la nostra cultura e la questione rimane aperta.

Mentre le sue proposte sono molto vicine alle idee libertarie, non parla mai di proposte di organizzazioni anarchiche e ambientali come il municipalismo libertario di Murray Bookchin. Cita più volentieri i “convivialisti” (nelloriginale francese: Convivialistes, NdT). Perché?

Ci sono due aspetti che mi sono piaciuti molto tra i convivialisti: la parte transdisciplinare che apre campi scientifici e il lato conviviale applicato alla politica, nonostante presenti aspetti spesso troppo teorici. Allora perché non più anarchici? Per dieci anni ho fatto campagna con gli anarchici, ho scritto molti articoli che non vengono mai letti. Volevo uscire da questo piccolo ambiente. Penso di aver paura di essere troppo marcato ed etichettato. Per esempio la casa editrice Le Seuil ha un’immagine “neutra”, diciamo universitaria, ed è stata una scelta volontaria. L’editore Les liens qui libèrent ha un’immagine un po più impegnata, ma  ha un grande pubblico. Avevo già pensato di pubblicare con editori anarchici, ma volevo prima ampliare il campo delle persone raggiunte e non parlare solo alle persone legate all’etichetta anarchica. E ho sempre in mente di fare un libro specifico su mutuo aiuto e anarchismo o transizione e anarchismo. Se un giorno succederà, lo rivendicherò e pubblicherò in una casa editrice di amici. Volevo essere discreto ma senza rinnegare me stesso, che è un delicato equilibrio. È anche una questione di strategia.

Lei afferma che la complessità dei grandi gruppi umani non promuove la capacità di resilienza e che dobbiamo operare in “piccoli gruppi ben proporzionati”. Rinunciare alla centralità della nazione non avverrà a costo di guerre, rafforzando le rivalità, moltiplicando il numero di potenziali nemici?

Sì, è un rischio da correre, ma penso che guadagneremmo molto riducendo le dimensioni e avendo gruppi più piccoli strutturati in modo orizzontale e decentralizzato. Riduce entrambi i rischi di industrializzazione della violenza e, allo stesso tempo, ci riporterebbe a principi più vicini all’organizzazione della vita. Per 3,8 miliardi di anni gli esseri viventi non hanno scelto organizzazioni gerarchiche piramidali. Non esiste. Perché possono essere molto efficaci ad un certo punto, come in un’azienda o nelle forze armate, ma sono molto poco resilienti ai cambiamenti di contesto e di ambiente. Quindi, se vogliamo continuare e resistere nel lungo periodo, come società umane, dobbiamo tornare su scale più piccole, decentralizzate. L’organizzazione piramidale può solo rompersi il muso, perché il nostro ambiente sta cambiando.

Una delle dimensioni che propone è quella delle bio-regioni …

Sì. Non ho ancora esplorato completamente la questione, ma mi sembra la cosa più logica, quella compatibile con l’idea di permacultura. Alberto Magnaghi ne parla bene, ed è qualcosa da sperimentare. In ogni caso, diversi sistemi politici emergeranno con la destrutturazione che sta avvenendo. Non possiamo dire “dobbiamo tutti fare questo, ecco qui il libricino che dice come farlo”. Emergerà, ci saranno biforcazioni, divisioni ed eventi imprevedibili, e ci si riuscirà o meno. La mia visione dei tempi politici che verranno è che ci saranno molti “giovani germogli”. Quando un grande albero crolla, è necessario coltivare la diversità dei giovani germogli che lo sostituiranno.

Ciò che è difficile da concepire oggi è che la diversità e il dissenso, cioè le spinte che vanno in direzioni opposte, sono necessari. Dobbiamo accettare il fatto che alcuni vogliono intraprendere strade diverse. È la diversità che crea la resilienza. Perché anche se trovi la soluzione geniale, la migliore per il 2020, potrebbe essere che nel 2030 non sia affatto adatta, e sarà tagliata fuori da tutte le potenzialità di altri giovani spinte… Oggi è complicato perché il nostro sistema politico non coltiva affatto tutto ciò. Al contrario, con l’austerità tagliamo tutto quello che va oltre, togliamo le erbacce e tutti devono rientrare nei ranghi. A lungo termine questo è molto tossico. Su questo rimango un po’ confuso, ma avendo frequentato per molti anni le teorie politiche del diciannovesimo e del ventesimo secolo, l’anarchismo, il comunismo in tutte le ramificazioni e correnti, mi dico che c’è ancora un sacco di cose che si possono riprendere per inventare cose nuove. Quindi c’è un sacco di lavoro teorico, in connessione con questi movimenti, che sarebbe affascinante fare, per collegare anarchismo e antropocene. Rinvigorirebbe questa pulsione libertaria alla luce di ciò che sta accadendo oggi. E questo non è lo stesso contesto di Kropotkin! Se fosse ancora vivo, non scriverebbe gli stessi libri. Ecco perché la convivialità è interessante: perché ciò che propone è prendere il meglio dell’anarchismo, del comunismo, del socialismo e del liberalismo, per prendere coscienza dei loro rispettivi difetti e provare a fare una sintesi. Non sappiamo se funzionerà, ma solo il tentare è intellettualmente interessante.

La scarsa reattività dei nostri governi di fronte al collasso ci porta a prendere la strada della disobbedienza civile?

È passato molto tempo da quando abbiamo iniziato e dobbiamo continuare. Personalmente amo il concetto di ZAD. Rispetto, sostengo, partecipo e spero che abbiano tutti successo. La mia appartenenza non è solo intellettuale, è profonda. Per me è parte di queste giovani piantine ed erbacce da coltivare nelle fessure dei marciapiedi, perché a un certo punto non ci sarà più marciapiede e allora bisognerà vedere la foresta. Se non coltivate le erbacce, c’è il rischio che non ci sia foresta. Quello che mi piace della ZAD è lo shock dell’immaginazione. Infine, gli ZADisti e coloro che difendono la crescita e l’occupazione, hanno entrambi ragione, entrambe le parti hanno la loro logica, ma non hanno lo stesso immaginario. E il confronto tra i due è interessante.

In questo tipo di esperienza, come mantenere il collettivo e i suoi interessi comuni pur mantenendo l’autonomia individuale?

C’è la questione di ridiventare competenti in cooperazione. Vale a dire, essere in grado di spiegare le regole del gruppo, come imparare a crearne uno, ecc. E poi c’è la dimensione del gruppo. Se la dimensione del gruppo ci supera, ci sono fenomeni che vanno al di là di noi e che schiacciano l’individuo. Ma come fare a limitare la dimensione dei gruppi?

Questo è un problema ancora irrisolto. Per me è una domanda che si trova all’incrocio di tutti i mali sociali e politici. Questo è quello che mi piace dell’anarchismo, perché abbiamo costantemente questa tensione tra l’individuo e il collettivo. Viviamo questo paradosso. Nei gruppi comunisti che ho frequentato, è sempre andato troppo da una parte, mentre nei liberali è sempre andato troppo dall’altra. L’anarchismo vive di questo paradosso ed è ricco e fertile perché ci sono diverse correnti che mantengono questa tensione.

Un’ultima domanda: il suo libro sulla Mutualità ovvero “auto-aiuto” potrebbe suggerire che lei è antispecista (L’antispecismo è il movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo; con questultimo termine si intende l’attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui unicamente in base alla loro specie di appartenenza, NdT)

.… È così?

Mi sono posto la domanda anch’io e purtroppo la penso così (ride). Fin da piccolo, non posso sopportare di ferire gli animali, ma non sono vegetariano. Vivo con questo paradosso. Non mi piace mai essere categorizzato e etichettato, mi sento vicino agli antispecisti. Posso sentirmi in profonda fratellanza con gli uccelli, uno scoiattolo e persino un batterio o un lichene. Ma vorrei cacciare, per curiosità, per capire la sociologia della caccia, ma non so se potrei sparare. Non è una domanda “facile, comoda”. Sono flessibile evidentemente, mangio solo carne biologica e locale di cui conosco l’origine e ne mangio il minimo possibile, forse una volta alla settimana. Ma non mi sono arreso totalmente. Un nativo americano che uccide un animale per il cibo, non posso biasimarlo. I nostri antenati che vivevano durante le glaciazioni per centinaia di migliaia di anni, erano cacciatori.

Ma sono d’accordo con tutti gli argomenti vegetariani: salute, etica, ecologia, disuguaglianze di accesso nel mondo. E non so fino a che punto penso ci sia una gerarchia nelle specie. Già, sono sempre imbarazzato dalla nozione di gerarchia. Ad esempio, è stupido, ma sono sempre stato imbarazzato dall’idea che versare della eau de Javel (disinfettante e sbiancante = candeggina – NdT) nel water elimina tutte quelle popolazioni batteriche. So da molto tempo che il 99,9% di queste popolazioni sono neutrali, e forse lo 0,1%  sono tossiche… e lo 0,1% sono benefiche! E noi eliminiamo tutto. Mi sembra pazzesco da un punto di vista ecologico, mentre a livello dei principi di vita, è semplicemente un annullamento, un risultato nullo.

È addirittura controproducente: infatti, vediamo che negli ospedali le infezioni legate ai germi resistenti agli antibiotici emergono perché facciamo il vuoto. Preferirei piuttosto rendere sacro tutto il vivente, sebbene sia ancora una soluzione semplicistica… Si dovrebbe tenere conto del concetto di limite e territorio. Per esempio quando una zanzara mi punge, viola la mia integrità, il mio territorio, e la uccido, e per me non è un problema. Se la zanzara è lì, sul muro e non si avvicina a me, la lascio in pace. Tra i felini, il territorio è la stessa cosa. Ci può essere competizione, rabbia e aggressività, anche negli umani, serve a stabilire i confini del territorio. Se qualcuno mi si strofina addosso, o mi insulta, c’è un momento in cui mi fa arrabbiare, e questo è normale. E non impedirò al leone di uccidere un animale che sarà il suo pasto. Ma nel complesso, mi sento al sicuro con tutti gli esseri viventi, è così.

 

Suggerimenti  a cura di Sarah Kilani [SK] 

… integrati, ove possibile, con quelli di Orto di Montagna [OdM]

[1-SK ] Pablo Servigne et Raphaël Stevens, Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes, Paris, Le Seuil, collection Anthropocène, 2015.

[1-OdM] Si veda anche questa intervista in italiano per saperne di più sull’opera di P. Servigne e R. Stevens su “L’effondrement”: https://ugobardi.blogspot.it/2015/09/la-fine-annunciata-della-civilta.html

[2-SK] Gauthier Chapelle et Pablo Servigne, L’Entraide. L’autre loi de la jungle, Paris, Les Liens qui Libèrent, 2017.

[3-SK] Jared Diamond, Effondrement. Comment les sociétés décident de leur disparition ou de leur survie, Paris, Gallimard, 2009 [1ère édition française en 2006]. Per una critica a questo libro vedi l’articolo di Daniel Tanuro e i dibattiti che ha suscitato. “L’inquiétante pensée du mentor écologiste de M. Sarkozy”

[3-OdM] Per un riferimento su Jared Diamond e la sua opera, vedere qui: “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”

[4-SK] Isaac Asimov, Le cycle de Fondation, Paris, Gallimard, 2000 (vari volumi).

[OdM] Per riferimenti su I. Asimov e il suo “Ciclo delle Fondazioni”: https://it.wikipedia.org/wiki/Ciclo_della_Fondazione

[5-SK] Su questo argomento vedi Ivan Illich,  “La sagesse de Leopold Kohr” , 1994.


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