Orto di Montagna

De-costruire (e spiegare) “Transition” (e la Transizione)

COS’E’: Questo articolo contiene una traduzione di un post originale sul sito Resilience.org, che si può trovare qui
CHI (AUTORE): Erik Lindberg, americano statunitense, dopo aver conseguito il dottorato in inglese e letteratura comparata nel 1998, con specializzazione in “teoria della cultura”, si è dedicato ad attività “manuali” ed è titolare di una piccola e pluripremiata azienda specializzata in restauri storici. Nel 2008 ha avviato la prima “fattoria sul tetto” a Milwaukee (Wisconsin, USA) ed è stato co-fondatore della locale Victory Garden Initiative, nonché membro del comitato direttivo “Transition Milwaukee”. Vive a Milwaukee con la moglie e i due figli.
QUANDO: Pubblicato ad agosto 2017 sul sito originale.

di Erik Lindberg

[questo è il secondo di una serie di articoli. La prima parte si trova qui (in inglese): http://www.resilience.org/stories/2017-08-07/on-transition/ ]


L’attrattività del Movimento Transition deriva in gran parte dalla sua narrativa. Ciò in effetti non dovrebbe sorprendere, dato che una gran parte del migliore spirito umano risplende proprio attraverso le nostre storie e i nostri racconti, fornendo lampi di speranza di fronte all’ombra della morte. È la pre-cognizione della nostra inevitabile fine, e il desiderio che la vita continui comunque, a creare un così forte desiderio narrativo nell’umanità.
Come teorico culturale, sono scettico sulla maggior parte delle affermazioni sull’universalità umana e ritengo che la maggior parte di ciò che è interessante riguardo gli esseri umani sia culturalmente e storicamente “specifico”. Ma non ho mai dubitato dell’universalità della storia attraverso il tempo e i luoghi. Senza la narrativa – che venga dal cielo, dalla terra, dai desideri dei viandanti – non c’è significato. Ci dice dove siamo stati, chi siamo e dove potremmo andare. Come disse una volta Roland Barthes, potremmo non essere in grado di comprendere e accettare gli strani modi delle culture “altre”, ma mai, nemmeno per un momento, non riusciremo a capire le loro storie.

A differenza della poesia, spiega sempre Barthes, la narrativa è traducibile con poca perdita di significato, poiché la narrativa è quella cosa che mette al primo posto il significato: spiega il rituale, getta luce sul poema o sulla danza, o sulla tavoletta altrimenti indecifrabile. La storia, da parte sua, è poco più che la storia delle nostre storie, spesso impiegando modalità simili di intreccio e trama.


… È possibile intravedere le dinamiche della narrazione storica anche solo esaminando brevemente LA storia del progresso industriale, in cui la narrazione del picco del petrolio svolge un ruolo interessante, seppur prevalentemente invisibile …
Evidenziare l‘abilità di Rob Hopkins come narratore “superlativo” non è minimizzare le sue altre (ed elevate) qualità – ad esempio la sua capacità di organizzare, la sua energia, la sua umiltà e passione, la sua devozione per il piccolo e il bello. Facendo riferimento al suo lavoro di narrazione, può sembrare che io stia facendo una distinzione tra narrativa/racconto, da un lato, e verità storica, dall’altro. Questa distinzione, però, credo sia falsa. Di solito pensiamo alle storie degli altri come a qualcosa che è simile alla pura narrazione e/o finzione, mentre pensiamo che il nostro racconto sia quello veramente accurato. Sto invece suggerendo che tutte le storie contengono un grande elemento di “costruzione di  trama” e anche di rappresentazione, che pretende di imporsi sul “ronzio di mille voci” con la sua organizzazione più precisa e ordinata, che non esiste prima del racconto della storia stessa. “Non è tanto il sapere”, disse Nietzsche, “quanto lo schematizzare, (cioè) imporre quel tanto di ordine al caos che è richiesto dalle necessità pratiche”.

Questo non vuol dire che le storie, inclusa quella che Transition utilizza, siano false. E nemmeno si intende negare che alcune narrazioni siano intenzionalmente fuorvianti, o siano nate da una generalizzata “malattia culturale”, o da tremendi atti di negazione, mentre altre hanno come loro scopo l’elevazione e l’emancipazione. [v. nota i] 


È possibile intravedere le dinamiche della narrazione storica anche solo esaminando brevemente “la” storia del progresso industriale, in cui la narrazione del picco del petrolio svolge un ruolo interessante, seppur prevalentemente invisibile. Per chi dubita del ruolo che la narrazione del picco del petrolio gioca nel Movimento di Transition, suggerisco di rivisitare solo le sezioni iniziali del “Manuale della Transizione”. A proposito di questo ruolo dirò di più in seguito. Rob Hopkins ha dato un potente scossone al mio mondo, e a quello  di molti che conosco, proprio grazie al modo in cui ha “rifatto” la narrazione del picco del petrolio, che a sua volta aveva “ri-narrato” la storia del progresso industriale. Quando dico che ha dato una scossa al mio mondo, intendo proprio dire che lo ha fatto andare sotto-sopra, perché la dinamica del Manuale è stata esattamente quella di rivoltare capisotto ciò che era appena stato capovolto. Marx, per dirne una, si era limitato appena a “capovolgere” Hegel.


Il Picco del petrolio capovolge la storia del progresso industriale

Le società industriali raccontano la storia dei loro progressi partendo da una società agricola, in cui la maggior parte della gente era coinvolta in pesanti lavori manuali, per approdare a una società “del tempo libero”, dove il lavoro fisico viene oramai svolto da grandi e potenti macchine, mentre un numero crescente di persone lavorano perlopiù con il loro intelletto e la loro mente, in quella che erroneamente è definita come l’ “economia della conoscenza” e, prima ancora, era stata annunciata da tutta una serie di libri che proclamavano l’ascesa della “classe creativa”. Questa storia è stata articolata nel modo più completo (ed enfatico) negli Stati Uniti, dove il sogno americano è stato praticamente “sancito per legge”.[v. nota ii]  Il sogno americano per la verità appare come una promessa: ogni generazione vivrà meglio della precedente. È in gran parte una storia di benessere materiale, anche se le varie “sub-culture” e diversi partiti politici potranno mettere in risalto i guadagni “meno” materiali, come i diritti civili (o criticheranno i loro progressi alquanto diseguali). Indipendentemente dall’appartenenza politica o ala ideologica, tuttavia, la politica americana è tutta indirizzata verso una sempre maggiore ricchezza e maggiori libertà, con (tipicamente) solo qualche dibattito marginale lasciato a proposito di “quali” sono le libertà più importanti. E in tempi di crisi o di contrazione, la politica americana parla solo di come rendere nuovamente grande l’America.
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Il grafico qui sopra  illustra la crescita economica sul lungo termine (negli USA, in 150 anni circa, Ndt), e quindi la crescente prosperità e la liberazione dal pesante lavoro manuale. [v. nota iii]  Mostra con numeri e in forma grafica la realizzazione della promessa americana di prosperità sempre crescente.
Sebbene ci sia stato un tempo in cui i Liberals (per l’Italia, il termine corrispondente può essere “progressisti”, Ndt) della politica possono essersi arrabbiati nei confronti dell’enfasi eccessiva sulla crescita economica, di sicuro la “crescita economica” è una delle principali “storie” (o narrazioni) che sentiamo quotidianamente raccontare, ed è stata pienamente abbracciata sia dall’America “liberal-progressista” sia dall’Europa. Se ne dubitate, sintonizzatevi su un canale della  “progressista” NPR (National Public Radio – USA; corrispondente più o meno alla RADIO RAI, NdT), in un giorno in cui vengono pubblicati i dati economici  e ascoltate quante volte, e con che tipo di linguaggio, i giornalisti celebrano la crescita economica, o avvisano dei “venti contrari” che questa potrebbe trovarsi di fronte.
… Questo era veramente progresso (…) o era solo un altro esempio di HYBRIS, cioè di quell’arroganza culturale che puntava a raggiungere continuamente nuove vette, sempre più alte, mentre continuava (e continua) a superare la capacità di carico della sua base di risorse?
La storia del picco del petrolio capovolge completamente questo grafico, facendo rilevare due o tre semplici fatti:
  • primo, che questa crescita economica è sempre stata accompagnata da un aumento del consumo di petrolio, e che le uniche volte che il consumo di petrolio si è stabilizzato o diminuito, ciò è avvenuto durante i periodi di recessione.
  • E in secondo luogo, quel petrolio è una risorsa finita che alla fine raggiungerà un picco nella produzione e poi inizierà a declinare. Le “prove” di come funziona questo tipo di picco, naturalmente, risultano evidenti dal modo in cui i paesi e le regioni produttrici di petrolio hanno raggiunto il picco e poi hanno declinato, secondo un grafico a campana come quello mostrato più sotto.
  • Ancora più pesante risulta la cosa se si esamina da vicino la storia della “scoperta del petrolio” accanto alla storia del suo consumo, esaminando le conseguenze locali del picco di produzione del petrolio in varie nazioni (per esempio la Siria) … e così via.

All’improvviso (quando viene chiarito il lato “non detto” della storia, quindi non basato esclusivamente su ciò che Tom Murphy definisce “estrapolazioni senza scrupolo dei dati”), il grafico della crescita esponenziale non è più una storia di progresso:
  • invece, è una storia di vulnerabilità (perché ci accorgiamo che tutto ciò che crediamo essere il “bene” dipende dal petrolio o dall’energia);
  • è anche una storia di false speranze e aspettative (perché c’è un dibattito pubblico veramente marginale a proposito della vera fonte della nostra ricchezza e di come essa non può essere permanente);
  • è, infine, una storia di crisi imminente (perché basta anche solo ricordare le crisi devastanti e gli sconvolgimenti che sono accaduti quando si sono verificate recessioni e depressioni, spesso a causa anche solo di minori diminuzioni o riduzioni nel flusso di petrolio).
  • Inoltre, è possibile aggiungere tutti quei grafici che descrivono le conseguenze negative che – in parallelo all’arco della crescita economica – si sono verificate: le emissioni di CO2, la deforestazione, l’estinzione di specie e così via.

Questo era veramente progresso, si sentivano legittimati a chiedere i Peak Oilers (cioè i sostenitori della teoria del “picco del petrolio”, detti “picchisti”, NdT), o era solo un altro esempio di HYBRIS, cioè di quell’arroganza culturale che puntava a raggiungere continuamente nuove vette, sempre più alte, mentre continuava (e continua) a superare la capacità di carico della sua base di risorse?

Naturalmente, uno dei principali argomenti che circondano il picco del petrolio (nella misura in cui esisteva una conoscenza o una discussione molto ampia in proposito), era se gli umani avessero finalmente trovato le tecnologie che una volta per tutte li avrebbero liberati dalla natura e da qualunque trappola malthusiana … anzi se, come affermano gli economisti, l’ingegno umano produrrà sempre un’alternativa migliore e più economica di fronte alla scarsità. Quelli di noi che hanno preso in considerazione i migliori e più informati argomenti, da entrambe le parti di questo dibattito, vedono che coloro che negano la dipendenza umana dalle risorse naturali e da un clima stabile, in verità ripongono molta fiducia nella convinzione che “qualcuno penserà a qualcosa di risolutivo, a un certo punto”, affermazione che supportano con la prova che “è sempre successo così”. E però molti di noi hanno capito che questo è (stato) vero solo finché il flusso di petrolio a basso costo è stato in grado di aumentare, di anno in anno, e che prima del 1860 (circa) spesso nessuno era riuscito “a pensare a qualcosa” di risolutivo. Potrei andare avanti ancora per molto, dalla mia posizione in effetti “partigiana”, in questa lotta globale sul vero significato della nostra storia recente, ma ciò mi farebbe perdere di vista ciò su cui voglio concentrarmi qui, cioè su Transition: un’organizzazione e un movimento ben saldo nella sua convinzione che gli esseri umani sono parte della natura, che la loro attività economica richiede risorse naturali ed energia, che non ci possa essere un’altra fonte di energia che può comportarsi come petrolio, carbone e gas naturale … e infine che la nostra dipendenza da questi combustibili fossili, e le credenze e i desideri che questi hanno ispirato, è probabilmente letale.
Presentata in questo modo, la narrazione del picco del petrolio è piuttosto pessimista, se non apocalittica.
Racconta la storia di una crisi della civiltà umana e, come appare anche in un rapporto emesso nel 2010 dai Capi di stato maggiore (militari) USA, prevede terribili conseguenze se non riusciamo a trovare una fonte di energia alternativa e non riusciamo a far crescere continuamente l’economia.

“Una grave crisi energetica è inevitabile senza una massiccia espansione della capacità produttiva e di raffinazione. Mentre è difficile prevedere con precisione quali effetti economici, politici e strategici potrebbe produrre una tale mancanza, essa comunque ridurrebbe di sicuro le prospettive di crescita sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli sviluppati. Un tale rallentamento economico aggraverebbe altre tensioni irrisolte, spingerebbe gli Stati fragili e in crisi verso il collasso e forse avrebbe un grave impatto economico sia sulla Cina che sull’India. Nella migliore delle ipotesi, porterebbe a periodi di duro aggiustamento economico. In che misura le misure di conservazione, gli investimenti nella produzione di energia alternativa e gli sforzi per estendere la produzione di petrolio dalle sabbie bituminose e dallo scisto attenuerebbero un tale periodo di adattamento appare difficile da prevedere. Non bisogna dimenticare che la Grande Depressione ha generato un certo numero di regimi totalitari che cercavano la prosperità economica per le loro nazioni con azioni di spietata conquista.” [v. nota iv] 



Transition capovolge a propria volta la storia del Picco del Petrolio e del declino industriale

La bellezza del Movimento Transition, e la bravura di Rob Hopkins come “narratore”, è quella di fornire una narrazione in base alla quale questa crisi in realtà è un’opportunità. È vero, ammette Hopkins, l’arrivo del picco del petrolio rappresenta un’enorme minaccia per i nostri (relativamente) alti livelli di stabilità attuale, per non parlare dei lussi, delle comodità e della longevità di cui gode la maggior parte del suo “pubblico di lettori”: del primo mondo, istruito, di classe media e benestante. Ma da quando William Wordsworth ha iniziato a poetare sui laghi nel nord dell’Inghilterra, o Jean Jacques Rousseau ha iniziato a parlare delle virtù di uno stile di vita più aspro e primitivo, se non prima, c’è sempre stata una “corrente trasversale” tra cultura moderna e industriale, che mette in discussione alcuni dei benefici che abbiamo ottenuto e rimpiange alcune delle precedenti gioie e semplicità che abbiamo perso. E’ vero che lo stesso Hopkins identifica esplicitamente le insidie di questa “romanticizzazione” del passato, ma  gioca comunque su un malcontento acuto e moderno che ha grandi radici storiche e che riguarda il prezzo che paghiamo per la nostra cultura moderna, altamente complessa e in costante crescita.

La storia che Rob Hopkins ci racconta nel “Manuale di Transizione” (…) è una storia di “Romantica Necessità” – e ce la racconta con grande entusiasmo.
Non intendo con ciò suggerire che abbia ragione nel valutare che i benefici della modernità industriale potrebbero non valerne il costo (in effetti, io mi sono convinto a questo punto che non lo valgano). Ma la forza della “versione Transition” della storia del Peak Oil deriva in gran parte dalla convinzione che possiamo anche Romanticizzare la semplicità bucolica e pastorale, perché la storia (ora rappresentata e da leggere attraverso grafici “geologici”) non ci darà alcuna scelta reale in questa questione. [v. nota v] 
In altre parole, la crisi nella cultura modern(ist)a che la narrativa del Peak Oil prevede, ci presenta (legittimamente) una crisi culturale, ma questa è una crisi più specificatamente per quei valori che una certa contro-cultura romantica, fin dalle prime disquisizioni sulla modernità, ha sempre messo in discussione. Ma fino al Picco del Petrolio (e questo non è un dettaglio da poco), questa contro-cultura romantica era sempre stata “opzionale”, cioè una “opzione facoltativa”. Detto altrimenti: era semplicemente l’ “altra scelta” nel grande banchetto con “tutto compreso” degli stili di vita moderni. I romantici antimodernisti potrebbero sempre aver avuto anche la più grande ragione dalla loro parte, o il miglior sentimento dietro la loro causa, ma finché il Picco del petrolio non è entrato nel gioco, la loro argomentazione ha sempre mancato di uno dei più importanti promotori della storia della sua trama: la necessità. [v. nota vi] 
La storia che Rob Hopkins ci racconta nel “Manuale di Transizione” (orig.: The Transition Handbook), quindi, è una storia di “Romantica Necessità” – e ce la racconta con grande entusiasmo. A riprova di ciò, ovviamente, possiamo guardare ai diversi luoghi in cui Rob suggerisce che la vita in una società a bassa energia potrebbe essere (addirittura!) preferibile alla moderna società industriale, in un brillante esercizio in cui ci fa osservare un percorso a ritroso partendo dall’immagine di un possibile desiderabile futuro in cui gli umani sono più focalizzati su ciò di cui hanno veramente bisogno: buon cibo, comunità e … l’uno dell’altro.
E questa immagine è ben combinata con un altro lato del concetto di necessità – o qualcosa di simile – che va sotto il nome di Resilienza. Proprio come la nostra dipendenza da una sostanza finita, la cui offerta sta per declinare, suggerisce che la semplicità locale sarà necessaria, così anche la comprensione dei sistemi naturali ed ecologici mostra che stiamo vivendo in una società estremamente poco elastica/flessibile, che potrebbe subire degli shock tali da renderla irriconoscibile anche solo a causa di piccoli cambiamenti che si verificassero nell’offerta di risorse naturali e nei sistemi umani, che dipendono invece attualmente dal loro aumento perpetuo. Ancora una volta, la scienza viene utilizzata per sostenere una “controcultura” che ha circa duecentocinquanta anni di vita.
La mia analisi, e anche il mio “tono analitico” non vanno tuttavia confusi o presi per il rifiuto di queste verità: il picco petrolio c’è o ci sarà di sicuro; la società moderna dipende completamente dalle risorse naturali; le nostre reti e sistemi sono alquanto fragili. Quello che mi interessa esplorare, però, è come e perché queste verità hanno spinto così tante persone all’interno di questa “sotto-cultura” (che sta leggendo queste parole) ad impegnarsi in un’azione così forte ed entusiasta. Potremmo voler credere che la nostra attrazione per Transition sia basata esclusivamente sulla “ragione scientifica” e sulla nostra adesione ad autentici valori umani; ma mantenere una visione così innocente di noi stessi, penso, equivale anche a fraintendere la logica dell’azione collettiva e il modo in cui i movimenti sociali funzionano davvero.
È qui, quindi, che potremmo introdurre il più significativo colpo di scena offerto dal Manuale di Transizione e dal Movimento Transition. Quello che ho descritto finora è già un incontro abbastanza drammatico per la storia umana, con crisi e possibili soluzioni. Ma penso che questo non faccia altro che “grattare la superficie” del dramma e della risoluzione che Transition ha promesso e su cui molte delle sue iniziative locali alla fine hanno fallito. Quindi, ecco il colpo di scena. Come abbiamo visto, un futuro a basso consumo energetico, locale, basato sulla comunità è in qualche modo inevitabile, soprattutto perché il suo opposto, e cioè la società ad alta intensità energetica, globalizzata, individualista, sempre più interconnessa e complessa è insostenibile. E per insostenibile intendiamo semplicemente che NON può continuare a funzionare. Sfortunatamente, tuttavia, la nostra dipendenza dall’energia, dall’individualismo, dal consumismo e dalla complessità significa che noi, come popolo, potremmo cercare di restare aggrappati disperatamente a questi valori finché non è troppo tardi per trovare un modo “sufficientemente dolce” per accompagnarci sul “lato della discesa” della curva energetica. Questo sembra essere il destino infelice della cultura moderna, a meno che il suo cuore, la sua testa e le sue mani non riescano ad afferrare la vera direzione della storia. Nonostante la necessità, il successo della Transizione della nostra società è tutt’altro che garantito.
E questo, dice Hopkins, è il punto in cui TU entri nella storia. TU potrai aiutare a guidare l’umanità lungo il percorso dell’inevitabile necessità. Qui, penso, sono le righe più importanti scritte nel Manuale della Transizione, ripetute più volte e più o meno allo stesso modo:
  • Il concetto di DISCESA ENERGETICA, e dell’approccio Transition, è semplice: il futuro con meno petrolio potrebbe essere preferibile al presente, ma solo se una sufficiente creatività e immaginazione sono applicate abbastanza presto nella progettazione di questa transizione.
  • Abbiamo una SCELTA. Possiamo scendere dalla collina (energetica, consumistica, di consumo delle risorse, NdT)  sulla quale ci troviamo, se in primo luogo riusciamo a sfruttare la stessa immaginazione e la stessa guida che ci hanno permesso di raggiungere la cima. La realtà è che l’unica via da qui è verso il basso (in termini di energia netta), ma che “giù” non deve necessariamente significare privazione, miseria e collasso. . . . L’idea della discesa energetica è che ogni passo indietro, in giù, dal picco della collina potrebbe significare un passo verso la sanità mentale, verso la nostra collocazione, e verso l’integrità del nostro tutto. È un ritorno a chi siamo veramente. . . . La discesa energetica è, in definitiva, una “ascesa” verso la ri-energizzazione delle comunità e della cultura – ed è la chiave per abbracciare realisticamente le possibilità della nostra situazione piuttosto che essere sopraffatti dalle loro sfide.

Prima di approfondire i diversi significati racchiusi in questI due passaggi, voglio dare atto del rischio che si corre nell’eseguire una simile operazione di decostruzione – il rischio, cioè, di mettere in discussione ciò che alcuni potrebbero vedere come i sacri legami che tengono insieme l’organizzazione di Transition e di criticare in qualche modo il suo ammirevole fondatore, che rimane uno dei miei eroi personali. Non prendo questo rischio alla leggera, ma procedo nell’operazione perché sono convinto che questi legami non stanno funzionando a livello di iniziativa locale, e inoltre perché almeno in parte una sorta di mitologia potrebbe essere stata costruita attorno a una particolare (e particolarmente drammatica) nozione di discesa energetica che sta portando Transition, intesa come organizzazione, fuori strada.[v. nota vii]  Vorrei sottolineare nel modo più chiaro che concordo, inoltre, con la maggior parte dei precetti o dei fatti di base asseriti da Hopkins: che una discesa di energia è inevitabile, che la vita vissuta in modo più semplice potrebbe essere migliore in molti modi, e più fondamentalmente che Transition si allontana dall’idea di una discesa dell’energia a proprio rischio e pericolo. Discesa energetica, vivere con meno, semplicità radicale: questi aspetti rappresentano ciò che è unico e cruciale nella Transizione. Ma nel momento in cui le iniziative di Transition si concentrano troppo (esclusivamente?) sui pannelli solari o sulla diminuzione (marginale) delle emissioni di carbonio personali, piuttosto che su un cambiamento culturale più ampio, ho ben più di un sussulto.
Se quindi sono in accordo sui punti di cui sopra, qual è il disaccordo o il problema con questo “riassunto” sulle affermazioni della missione di Transition?

Prima di tutto, lasciatemi notare gli elementi già discussi e presenti in questo passo: l’idea di discesa energetica, naturalmente, e la nozione Romantica di autenticità e la convinzione che il nostro “autentico sé” si trova al di fuori delle false promesse della civiltà industriale. Come tutte le narrazioni politiche, del resto, anche questa presenta e drammatizza un possibile risultato che dipende dalla “scelta”, e quindi dal lettore, ovvero partecipante. Significativo è anche il punto in cui Hopkins pone il suo lettore nella storia – (implicitamente) sul picco della collina, non diversamente cioè dal luogo del climax (o della crisi) nel dramma ascendente e discendente di una narrativa ben fatta. Questi sono tutti degli importanti strumenti per dare ispirazione al lettore, ma l’ostacolo più grande è l’affermazione implicita secondo cui voi (noi) potremmo essere “quei geni” creativi che possono guidare voi (noi) stessi verso una dignitosa discesa energetica. C’è ben più che un po’ di adulazione verso il lettore e, devo ammettere, possibilmente anche della potenziale egomania [v. nota viii] (o egocentrismo, NdT) in questi suggerimenti – un suggerimento inoltre che implicitamente sembra già dare indicazioni su quale genere di attività dovrebbero svolgere le iniziative di Transition, descritte in considerevole dettaglio per tutto il resto del Manuale: le manifestazioni visibili, la modellazione della gioia e della felicità, la nozione – piuttosto improbabile – che una nuova cultura possa essere progettata se solo i progettisti possiedono sufficiente spinta (o guida) e immaginazione.


… penso che molte delle nostre iniziative locali di Transizione siano state organizzate attorno alla confusa e inebriante convinzione che il picco del petrolio mondiale si sarebbe tradotto in un momento di “chiarezza”, mentre un numero crescente di persone sarebbe arrivato a comprendere i pericoli della società industriale, e avrebbe cominciato a cercare alternative, e avrebbero guardato ai Transitioners, felici e gioiosi con i loro modelli e sistemi nuovi e resilienti …
Devo ammettere, qui, che questo aspetto mi ha preso abbastanza “di brutto”, quando ho letto i passaggi di cui sopra per la prima volta. Se sono onesto, penso che a un certo livello mi sono detto: sì, ho quel tipo di immaginazione e guida, e la creatività necessaria, e anche la capacità di sfruttare i profondi valori umani per le creazioni pratiche; posso aiutare a progettare una nuova e migliore cultura. La maggior parte delle narrazioni politiche e delle loro “suggestioni” fanno degli appelli di questo tipo, affermando, ad esempio, che con il tuo voto o con la tua protesta puoi metterti dalla  “parte giusta della storia”. Il Manuale della Transizione va molto oltre, quando dice che puoi effettivamente progettare quella storia, se solo raccogli i tuoi amici e scateni il (tuo/vostro) genio collettivo. Questo appello è stato così potente per il mio senso di chi e cosa volevo essere che ho spento un bel po’ della mia capacità di pensiero critico, accettando la nozione di (Romantica) Autenticità e di design/progettazione culturale come finzioni utili per una causa molto più grande.
Tornerò (prossimamente) a parlare più a lungo della falsa idea che la cultura possa essere progettata e mi limito a suggerire, per il momento, che questo appello al senso del genio creativo e generoso era destinato a fallire, a prescindere da ciò che sarebbe accaduto “sul campo” in termini di dinamiche globali della produzione di petrolio. Ma è certamente il caso di ammettere che l’ascesa e la caduta di tante iniziative locali di Transition abbiano avuto a che fare con il fatto che il petrolio NON ha raggiunto il picco nel modo in cui pensavamo che ciò si verificasse. Richard Heinberg ha parlato al Transition Gathering degli Stati Uniti sulla scomparsa della narrazione del picco del petrolio, sebbene molti di noi ne abbiano parlato dopo l’articolo di David Holmgren, “Crash on Demand”, che ha ricevuto molti commenti tra cui la mia “Agency on Demand”. [v. nota ix] 
Tutti gli esperti del picco del petrolio, tra cui Hopkins, ci hanno assicurato che ci sarebbe stato un “plateau” o “piano di oscillazione” alquanto accidentato, nel momento in cui i mercati petroliferi mondiali si fossero trovati “aggrediti” dall’aumento dei prezzi, dal conseguente rinnovato investimento nel petrolio marginale e, allo stesso tempo, dalla contrazione economica, seguita dalla diminuzione della domanda e dalla diminuzione dei prezzi, e quindi forse dalla “ripresa” economica – secondo quanto è stato meglio descritto negli ultimi anni da Gail Tverberg. Ma nonostante questi avvertimenti che il picco del petrolio non sarebbe stato riconosciuto come “evento”, penso che molte delle nostre iniziative locali siano state organizzate attorno alla confusa e inebriante convinzione che il picco del petrolio mondiale si sarebbe tradotto in un momento di “chiarezza”, mentre un numero crescente di persone sarebbe arrivato a comprendere i pericoli della società industriale, e avrebbe cominciato a cercare alternative, e tutti avrebbero guardato ai Transitioners, felici e gioiosi con i loro modelli e sistemi nuovi e resilienti. Non sono sicuro di poter identificare un particolare punto nel Manuale in cui questo è espresso chiaramente. [v. nota x]  Ma so che molti di noi si aspettavano folle di persone che si sarebbero unite a noi mentre i prezzi del petrolio continuavano a salire e le istituzioni economiche iniziavano il loro lento ma permanente collasso.
Per dirla con altre parole, Transition, a mio parere, è stata costruita attorno a un senso di imminenza e al senso di una crisi relativamente rapida. Questo è uno dei motivi per cui è stato definito un “movimento”. Probabilmente abbiamo detto a noi stessi che eravamo sì in una “crisi a lungo raggio”, ma data la nostra moderna capacità di attenzione, la maggior parte delle persone che si erano unite a (o si dilettavano con) Transition, pensavano a un periodo di accadimento di questa “crisi” entro 3 o 5 anni, ed erano emotivamente impreparate alla ripresa (per quanto provvisoria e disomogenea, o anche perlopiù solo “retorica” e non effettiva) della finanza internazionale, all’aumento della produzione di combustibili liquidi, anche se con scarso guadagno netto di energia, e al ritorno alla crescita e alla “normalità” per la classe media. Abbiamo creato i nostri gruppi di lavoro, installato i nostri giardini comunitari e abbiamo trascorso ore ad apprendere il processo decisionale non-violento di gruppo.

Ma poi non è successo nulla, o almeno non quel qualcosa che ha portato la folla alle nostre porte. Invece abbiamo avuto gli anni della vaga speranza con Obama, i prezzi del carburante in caduta, molti titoli di giornale (spesso falsi) sulla rivoluzione nelle energie rinnovabili … insomma, una decisa mancanza di qualsiasi tipo di accadimento di “quel” dramma da cui – esplicitamente o in qualche vago e inconsapevole modo – il movimento di Transition, nella sua prima manifestazione, sembrava dipendere. Siamo stati costruiti per l’azione, quando, forse, avevamo anche bisogno di costruire una capacità di attesa multi-generazionale. Come ha spesso sottolineato John Michael Greer, la storia viene “accorciata” nei nostri libri di storia, e gli eventi che richiedono decenni o addirittura secoli sono rappresentati da eventi drammatici singolari e onnicomprensivi. Così sarà anche per il caso della scomparsa della civiltà industriale. [v. nota xi] 


È tempo di ricostruire Transition ancora attorno alla discesa di energia, ma senza residue illusioni che il picco di energia netta mondiale sarà un momento o un evento … e comunque non sarà un momento di chiarezza.
Se ho ragione, allora è tempo che il Movimento di Transition si rassereni, tranquillizzi e … ritorni in carreggiata (e in molti modi, devo essere chiaro, lo ha già fatto – anche se non penso che sia stato completamente ri-progettato per questa nuova “sobrietà”). Noi, le persone che l’hanno in qualche modo “esaurito” (e che rimaniamo disposti a farlo, per qualsiasi motivo), dobbiamo usare lo stesso slancio e speranza e creatività per ricreare Transition. Più specificamente, abbiamo bisogno di ricrearlo con un senso completamente diverso di tempo, dramma, storia, scelta e progetto. È tempo di ricostruire Transition ancora attorno alla discesa di energia, ma senza illusioni residue che il picco di energia netta mondiale sarà un momento o un evento … e comunque non sarà un momento di chiarezza.
Sarà invece e in gran parte un periodo di maggiore rifiuto culturale e di “testa sotto la sabbia”, di conflitti e di prese di potere, rispetto a quel momento di “resa dei conti culturale” che inizialmente Transition sperava potesse essere.
E come ho già detto in precedenza, e come ritornerò a dire (e approfondire) in seguito, i modelli offerti dai gruppi religiosi e dai partiti politici possono aiutare molto in questa riprogettazione in un mondo di crisi lente e forse irrisolvibili, insieme a grandi lotte sul significato dell’attuale cambiamento storico.
Prima di finire, tuttavia, devo chiarire ancora una volta che queste sono le mie impressioni e che Transition comunque riesce ad avere successo proprio in ragione delle qualità che il Movimento ha ispirato in molte persone.
Forse la maggior parte dei “primi” ad adottare la Transizione non era intossicata quanto me dal senso di possibilità che ho cercato di identificare in questo scritto.
Forse i suoi leader più solidi si sono rasserenati e tranquillizzati molto tempo fa e si sono già riorganizzati sul “lungo periodo”. Ancora più importante, Transition si è completamente astenuta dal fare ciò che la maggior parte dei movimenti di lotta o le ideologie politiche fanno. Non ha cercato di “dare la colpa” a qualcuno al di fuori di se stesso. Non c’è assolutamente la sensazione che siamo stati sabotati o minati nelle nostre azioni da qualche presunto nemico interno o esterno. Di questo fatto, come Transtitioner dedicato e applicato, sono molto orgoglioso.

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NOTE:

[i] Il miglior racconto della storia come una trama narrativa viene dal lavoro di Hayden White, in particolare dalla sua opera maggiore, Metahistory: The Historical Imagination in 19thTime History.

[ii] Charles Hall e Kent Klitgaard sostengono che si trattava proprio di questo, con l’Employment Act del 1946. Il discorso “Four Freedoms” di Franklin D. Roosevelt agisce quasi come un addendum alla Bill of Rights che promette una maggiore “affluenza” per gli americani e per il mondo.
[iii]
http://www.resilience.org/wp-content/uploads/2017/08/chart.png

[iv] https://fas.org/man/eprint/joe2010.pdf  — Distribution Statement A: Approved for Public Release February 18, 2010.


[v] Posso forse descrivere la forza di questa necessità con un esempio personale. Sono stato educato con una sensibilità modernista e postmoderna sulla modernità, che accetta la sua inevitabilità e in misura maggiore celebra i valori della ragione critica strumentale e pragmatica, anti-essenzialista, anti-fondamento, assolutamente secolare. Eppure, all’interno di questa sensibilità c’era ancora una certa ambivalenza nei confronti della modernità, un persistente anti-modernismo (si pensi alla grande nostalgia modernista di TS Eliot) per la quale non riuscivo a trovare una vera giustificazione filosofica che non mi rendesse un po’ troppo simile a Martin Heidegger per i miei gusti. Ma per me, in ogni caso, il momento in cui la fine della modernità riceve una sorta di necessità storica (mentre i lettori di Hegel e Derrida si scontrano con i lettori di David Holmgren e M. King Hubbert), tutti i tipi di valori che erano stati cancellati dalla mia propria cultura intellettuale – e al di là di ciò, dalla mia gamma di possibili considerazioni – ora ho un senso crescente.
In termini più generici, la necessità di semplicità, contrazione, localizzazione e orizzonti materiali ristretti rappresentati nella storia del picco del petrolio mette in discussione, infine, il cosmopolitismo espansivo, indiscusso, esasperante, che ha influenzato in modo schiacciante la cultura intellettuale nel passato almeno mezzo secolo. Naturalmente gli hippies, i sognatori, gli amici degli alberi e i ballerini che svolgono un ruolo così importante nel Movimento di Transizione potrebbero strabuzzare gli occhi su questa digressione nella storia intellettuale: sapevano fin dall’inizio che la modernità non aveva mai avuto una possibilità contro le meraviglie della natura, a dispetto di quanto fosse incisiva la nostra critica della distinzione natura / cultura.


[vi] Alcuni dei miei lettori più continui si sono chiesti di tanto in tanto perché enfatizzo l’importanza di Hegel. Hegel è importante, direi, perché è uno dei più grandi narratori della necessità storica. La sua è una filosofia di necessità.

[vii] Devo notare che le Iniziative di Transition, sia a livello internazionale che a livello locale, hanno lavorato duramente per creare progetti e visioni non dipendenti da un picco di crisi petrolifera. Tuttavia, credo ancora che molte iniziative abbiano perso il loro iniziale (e spesso intossicante) senso e scopo quando la loro “mitologia” non poteva più essere sostenuta di fronte ai flussi e riflussi, più complessi e competitivi, della vita.

[viii] Per essere chiari, non percepisco nessuna egomania/egocentrismo in Hopkins e credo che la Transition come movimento sia stato molto brillante nel modo in cui ha abbracciato l’umiltà.
[x] Sebbene la nozione stessa che le iniziative locali debbano preparare piani di azione per la discesa dell’energia, che a loro volta potrebbero essere accolti favorevolmente e attuati dai nostri governi locali, suggerisce una sorta di effetto valanga che in effetti non si è verificato.

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